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L'evoluzione dello splat

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30 ottobre 2009

Alla base di tutto c'è quella che mio fratello chiama la tecnica dello splat. Tu non devi andare verso l'auto facendo capire al guidatore che punti proprio lui. No, devi guardarti intorno, magari perdere tempo con un camionista fermo anche lui in coda al semaforo, e poi all'improvviso splat! Sbatti la finta pelle di daino fradicia, bisunta e insaponata sul parabrezza, non proprio in mezzo ma un po' di lato, dalla parte dove sta il volante, e da lì cominci.
A quel punto il danno l'hai già fatto, perché se anche il tizio attacca a sbraitare, a far andare i tergicristalli, a muovere l'auto avanti o indietro, i casi sono due: o si tiene la patacca sul vetro e se la pulisce lui, oppure deve lasciarti fare. Certo, non è detto che alla fine ti metta in mano l'euro. C'è pieno di carogne che dopo che hai fatto il lavoro ti dicono che no, loro non ti hanno chiesto niente; poi ci sono quelli che non ti guardano neanche in faccia, dall'inizio alla fine. Tu non esisti. Una volta uno ha tirato fuori un coltello e me l'ha mostrato, tenendolo in modo che gli altri automobilisti non lo vedessero. Lì c'è poco da discutere. Il semaforo diventa verde, l'auto se ne va.
È per questo che la regola numero uno è puntare le donne. Sono più gentili, non c'è niente da fare. Raramente nei loro occhi brucia l'odio sordo, tagliente, avvelenato che c'è negli sguardi dei maschi, la voglia di vederti morto, quell'odio che buca la pelle anche quando credi di averci fatto il callo. Le ragazze e soprattutto le donne dai quaranta in su, anche quando ti mandano via, lo vedi che un po' gli dispiace; invece di fare il muso duro che agli uomini riesce benissimo, loro al massimo diventano isteriche, strillano, si agitano. Eppure a volte an-che così il soldino finiscono per darmelo. Basta evitare quelle che girano in Smart o col Suv, che poi anche in quei casi ci sono delle eccezioni.
Comunque a me lo splat non piace. Andava bene quando avevo otto o dieci anni, ma adesso ne ho quindici, anche se al campo tutti dicono che sembro più piccolo. Ho sviluppato un mio talento.
Io arrivo con un bel sorriso, faccio un inchino e mi presento: «Buongiorno, signora!».
Dico il mio nome, e qui di solito la guidatrice ride o scuote la testa, stupita, e la battaglia è già vinta. A volte mi danno i soldi senza nemmeno che debba mettermi a lavare il vetro, anzi mi fanno segno di lasciar stare, ridono, mi pregano di non sporcarlo con la mia pezza fetente. Altre volte mi lasciano fare e io intanto chiacchiero. «Fa caldo, eh? Come sta, signo-ra? Sta andando al lavoro o a far compere? Tutti bene a casa? Mi saluti i suoi bambini! Buona fortuna a tutti!» e continuo a sorridere, e mi appoggio una mano al cuore. Molte si com-muovono. Certe sporgono il braccio per farmi una carezza e mio fratello dice che quando sarò più grande mi inviteranno a casa, con il pretesto di offrirmi la merenda. Ma io non voglio pensare a queste cose.
Una mattina sono passato davanti a una villa e c'era una bambina che giocava in giardino. Era bellissima. Vestita di viola. Mi sono fermato, incantato.
Lei mi guardava. Per la verità ero andato lì per fare pipì contro il muro, ma me ne sono dimenticato. Lei ha ripreso a giocare con la palla, ma vedevo che mi sbirciava. Avrei voluto dirle qualcosa ma non mi saliva la voce. Alla fine è uscita sua madre e l'ha portata dentro. Io sono andato al semaforo, mi sono seduto sul marciapiede e sono scoppiato a piangere. Le auto suonavano, una signora è scesa e mi ha chiesto cos'avevo. Sono scappato al campo e mio fratello mi ha menato. Non l'ho più rivista.
Quando sono nato, nel '94, mia madre ha insistito per chiamarmi Silvio, perché ha detto che qui in Italia questo nome mi avrebbe portato fortuna. Mio padre non voleva, era furioso, ma alla fine l'ha vinta lei. La vince sempre lei, anche se quando vola uno schiaffo è la mamma a pigliarselo in faccia.
Io non so se mi porterà fortuna. È un bel nome e con le automobiliste funziona. Più in là vedremo.
Intanto vado avanti.

30 ottobre 2009
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